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FORME PENSIERO

 

“In ogni caos c'è un cosmo, in ogni disordine un ordine segreto.”

Carl Gustav Jung

 

L’arte pittorica di Arjan Shehaj (Patos, Albania, 1989) è formata da linee, entità temporali che, sovrapposte, danno vita a una fitta trama individuale e sentimentale. Sono linee da cui si originano geometrie poetiche, fluide ed introverse, nelle quali emerge il tempo personale di Shehaj, un tempo lento e vissuto con grande consapevolezza. Un intricato e affascinante intreccio che invita a usare l’immaginazione.
Ed è solo tramite l’immaginazione, sciolta dalle rigide briglie della razionalità, che risulta possibile cogliere la dimensione intima di queste “forme pensiero”, che altro non sono che lo stratificarsi ed il rispecchiamento delle vicende biografiche dell’artista – giunto in Italia all’età di quattordici anni in seguito ad un viaggio che ne ha inevitabilmente segnato la maturità - insieme all’evoluzione della sua pittura in superfici sempre più pregnate da sintesi e pulizia.

L’artista propone la purezza del gesto, una volontà di disegno, una semplicità compositiva che nasce innanzitutto dalla necessità di scoperta, dove ogni linea appare come un immaginario percorso in un cammino iniziato da tempo. Attraverso una riduzione del linguaggio artistico a segno, fine ultimo dell’artista è quello di cogliere il concetto puro e la realtà nella sua struttura essenziale.

Una conoscenza dei mezzi della rappresentazione che lo portano a creare realtà che prima di tutto sono novità per la stessa mano che le ha concepite, come se ogni volta la superficie pittorica fosse  tabula rasa. Dipinti gestuali in apparenza irregolari e caotici, in realtà impalpabile raffigurazione di un’irregolarità controllata, attraverso la rappresentazione e sconfitta di un caos mentale concepito come condizione universale, il cui effetto finale è fruibile sulla superficie prescelta.
Si tratta di semplici linee che, con costanza e visione individualistica dell’artista, arrivano a disporsi secondo un tracciato di consapevolezza e di lentezza e che, attraverso un processo di rigorosa  sintesi e pulizia della superficie, da dure e rigide si trasformano in vibranti, sottili e tenere, ottenendo così  una superficie dotata di struttura e sensibilità, a partire dalla caotica energia di partenza.

A variare sono i materiali – talvolta anche organici e mai casuali, frutto di una ricerca sentita - a rimanere costante è invece la tecnica, attraverso l’intreccio ed il collegamento di linee testuali e curvilinee, concepite come vene e arterie fulcro di una vita pulsante.
Nonostante la tecnica a mano libera su superficie bianca, griglie invisibili costituiscono il punto di partenza strutturale delle opere, al fine di evitare la sovrapposizione delle linee compositive ed agevolarne invece il naturale intreccio.

Il processo pittorico non è mai lineare, ma invece frutto di un labor limae continuo e progressivo, verso una sintesi ed una semplificazione delle figurazioni, ottenibile solamente  attraverso una cancellazione stratificata.
Ogni passaggio di tratto diventa lento accadimento, un fatto che si palesa nell’atto stesso del compimento, uno stupore che appartiene innanzitutto all’artista stesso.
Non si tratta di semplici astrazioni, ma di libere azioni a fondamento di questa narrazione, nella quale è immediatamente riscontrabile il più grande dilemma umano: quella sintesi tra l’inizio e la fine, al limite di un confine sempre più labile tra immaginazione e realtà,  tradizione e avanguardia.
Sulle orme di Antonio Calderara, in Arjan Shehaj c’è un evidente consapevolezza di porsi in continuità con una storia pittorica importante – e di avere la possibilità di compiere questa operazione -, pur non risultando mai derivativo ma invece sempre in risonanza ed in spirito di continuità con quell’astrazione il cui fulcro primigenio è riscontrabile in Piet Mondrian.

Shahaj misura l’uomo nella sua dimensione primordiale, dalle linee che lo uniscono, dalla struttura geometrica che diventa tanto chiara quanto irreale, attraverso un’arte che si rivela essenzialmente antropometrica, grazie a forme geometriche che vivono tra la dimensione irreale della superficie e l’estensione della vita reale.

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